Raffaello Franchi «L’equilibrista» (1934)

Recensione a Raffaello Franchi, L’equilibrista (Firenze, Vallecchi, 1934), «Primato», Pisa, a. X, n. 5, settembre-ottobre 1934, p. 24.

Raffaello Franchi «L’equilibrista»

Questo libro della maturità di Raffaello Franchi è uno di quelli che si impongono all’attenzione del lettore per una loro seria nobiltà spirituale e che mostrano, pur non essendo affatto autobiografici, di nascere da vite intimamente pensate e sofferte con intensità tragico-ironiche, proprie di spiriti sensibilissimi ed eminentemente critici. L’atteggiamento costante del Franchi, in questo suo libro, è infatti di una superiorità spietata, senza abbandoni sentimentali da cui anzi rifugge, mediante ardue espiazioni ironiche, come da un tradimento alla propria personalità. L’indole artistica del Franchi, lungi dall’essere arida e sofistica, ci si mostra cosi antitetica alla possibilità di un romanzo secondo la tradizionale concezione narrativa, e diretta invece ad un tipo di oggettivazione, in una vicenda narrata, di posizioni critiche. Pensavamo infatti, collocando l’Equilibrista in una acuta spiritualità novecentesca, ad una sua parentela con la forma di certi dialoghi valeriani e soprattutto con quella di L’âme et la danse in cui appunto i valori artistici (a parte il motivo di prodigiosa leggerezza ritmica, che nel nostro libro non riscontriamo) si concentrano in un equivalente fantastico, di sorprendente intelligenza, dei motivi critici, metafisici che vivono nell’autore. Solo che nel Franchi c’è, piú che nel Valéry, la necessità dell’azione, dei personaggi in relazioni sociali e perfino di una certa psicologia che nel poeta di Charmes è inesistente.

Insomma a noi sembra che manchi nell’Equilibrista una vera forma narrativa, una forma in cui il lirismo nasca dall’anima stessa della narrazione e non da equivalenze fantastiche, da traduzioni in termini poetici. E con ciò non vogliamo parlare di stile semplicemente esornativo, ma vogliamo indicare i limiti e le qualità del volume in esame.

Quando si sia cosi capita la natura del libro, il giuoco formale, che non è abile, ma naturale, intrinseco, assume il suo vero volto e si incentra nella figura del protagonista, la cui qualità (equilibrista) pare assurgere a simbolo di tutto il libro: Belicof, l’equilibrista, trova la formula della sua spiritualità nel pericolo del circo e ciò che può sembrare un accessorio del racconto diventa la molla intima di tutta la costruzione. Nasce cosi un’atmosfera speciale, creata per valori simbolici dalle cose piú comuni della vita, che va concretandosi man mano che ci si avvicina al centro del libro: la presentazione dell’equilibrista, lo spettacolo del circo. Questa tinta che distanzia ogni azione dalla continuità condizionata della realtà pratica, non si forma interamente all’inizio del libro che si presenta come un sunto di vita borghese in cui conta, come motivo di unità, solo il desiderio dello straordinario e dell’eroico che cova coscientemente nell’animo del Fortini e per forza istintiva, dialettica in quello di sua moglie.

A poco a poco si prepara l’entrata della coppia dei saltimbanchi nordici, la cui vita precedente è narrata come parallela a quella della coppia fiorentina, ma con un maggiore senso di centralità, di essenzialità nel giuoco del libro. Si sente nell’autore un desiderio di bruciare le tappe e di arrivare all’anima del suo lavoro e spesso anche gli sprazzi intelligentissimi che illuminano questa parte preparatoria sembrano non rispondere interamente al problema essenziale del libro: l’immanenza del pericolo attuata, la liberazione dal passo della vita comune: «Il frate, una volta convinto e vestito, sa di non poter fallire. Ma invece il saltimbanco aspira all’immanenza di un pericolo che l’abilità può distruggere».

In questa parte centrale (la piú evidente e la piú riuscita per le ragioni già esposte) l’equilibrismo si travasa dal circo nella vita delle due coppie.

Non è amore per Matilde quello che porta a lei l’equilibrista, ma l’amore per il pericolo, quasi il tentativo di trasvalorare il proprio problema vitale «in una nuova dimensione sconosciuta». (Sacrificare l’amore al pericolo. Ecco il destino dell’equilibrista). C’è un momento in cui la preparazione della conquista sembra decadere in preoccupazioni psicologiche da Julien Sorel, ma poi l’idea dell’equilibrista ritorna cosi sovrana nella scena in cui Belicof afferra e bacia Matilde, che salva completamente il passo dalla banalità e lo ripone nella coerenza essenziale di tutto il lavoro.

Toccato questo vertice, il racconto diventa la delusione dell’equilibrista che «quando aveva voluto diventare equilibrista dello spirito, anziché ritrovare il senso del pericolo necessario, s’era imbattuto in uno sciapo sapore di morte», nella gora borghese dell’altra coppia.

La riunione reale di Matilde col marito è la riunione ideale di Federica con Belicof, che risolve definitivamente, oltre l’assurda avventura, il suo problema vitale di rischio. Ma la soluzione resta piú che altro teorica, intellettualistica e il tono del libro, ormai fuori del simbolo vivificatore del circo, si smorza. Cosi la fine è un po’ come la cenere del fuoco bruciato nel resto del libro.

Naturalmente indicando il carattere originale del libro non se ne vuole dare la completa giustificazione estetica: troppo spesso si sente un odore di freno bruciato, un certo sforzo di intelligenza che ci mostrano il limite della potenza artistica del Franchi. Troppo spesso si intuisce un decadere nella maniera e quasi, per la troppa tensione, nel ridicolo: come di uno che volesse accendere la sigaretta con la punta del proprio dito.